In Italia, il concetto di “posto fisso” è ancora profondamente radicato: per molti rappresenta la meta finale, simbolo di sicurezza, stabilità e riconoscimento sociale.
Tuttavia, per una nuova generazione di professionisti e leader, la sicurezza non coincide con l’immobilità. Chi sceglie di crescere, creare impatto e affrontare nuove sfide non si accontenta della stabilità formale, ma cerca contesti dove poter esprimere appieno il proprio valore.
L’Interim Management nasce proprio da questa visione evoluta: è la scelta consapevole di chi desidera mettere le proprie competenze al servizio del cambiamento, portando risultati concreti in tempi rapidi, anziché rimanere ancorato a ruoli ormai privi di stimoli o prospettive di crescita.
Gli executive che intraprendono la strada dell’interim non lo fanno per mancanza di opportunità, ma per desiderio di autonomia, varietà e impatto reale.
In un mercato sempre più dinamico, la capacità di guidare la trasformazione anche per periodi limitati rappresenta una delle competenze più strategiche e ricercate.
Eppure, intorno a questo modello continuano a circolare diversi falsi miti che vale la pena sfatare.
Vediamoli insieme.
Prima di sfatare i luoghi comuni, vale la pena fare una riflessione su come il mercato del lavoro valuta il talento e il valore reale delle persone.
Troppo spesso, la prima selezione viene fatta da figure HR che , pur con le migliori intenzioni , non sempre riescono a collegare le esigenze reali del business con le competenze giuste.
La valutazione si concentra su aspetti di “piacevolezza”, adattamento al team e stabilità, più che sull’impatto e sul valore che la persona può portare.
Il risultato è che molti candidati ad alto potenziale , orientati al cambiamento e alla performance , non superano la prima barriera, non perché non siano idonei, ma perché non rientrano nello schema tradizionale del “profilo stabile”.
Il recruiter vero, quello strategico, non consegna al cliente un candidato “già deciso”, ma porta elementi di valutazione e valore, permettendo una scelta consapevole e mirata. Deve essere in grado di comprendere la fase di vita dell’azienda, i suoi obiettivi, il contesto e la direzione di sviluppo, per individuare le persone davvero adatte a quel momento specifico.
Per esempio, in un’azienda in rapida crescita o trasformazione, un manager proveniente da una realtà molto stabile e “matura”, dove ha lavorato per oltre dieci anni, potrebbe non essere la scelta giusta, anche se dotato di ottime competenze tecniche e manageriali. Non si tratta di valore assoluto, ma di coerenza con la fase e la cultura dell’organizzazione.
Non a caso, molte aziende internazionali, in particolare inglesi e americane, affidano la selezione a recruiter di fiducia, capaci di valutare competenze, risultati e mentalità di crescita, non solo personalità o “adattabilità” apparente.
Durante i colloqui con aziende britanniche e americane, nessuno chiede: “Perché cambi spesso lavoro?” o “Possiamo contare sulla tua stabilità?”
Questa domanda semplicemente non esiste — e il motivo è culturale, ma anche profondamente economico.
In quei mercati, la mobilità professionale è considerata un segnale di crescita, curiosità e adattabilità, non di instabilità. Le imprese anglosassoni operano in contesti estremamente competitivi e in costante trasformazione, dove la capacità di cambiare ruolo, settore o modello di business è vista come un indice di valore e resilienza manageriale.
Per questo, britannici e americani valutano i risultati, non la permanenza. Vogliono sapere che impatto hai avuto, quali problemi hai risolto, quali trasformazioni hai guidato. La loro domanda, semmai, è l’opposto:
“Perché sei rimasto nello stesso ruolo per sei anni?”
Per loro, questa può essere un’indicazione che la persona non cerca più stimoli o crescita. Non è un giudizio negativo, ma una questione di coerenza: nelle aziende in evoluzione, orientate al risultato e al cambiamento continuo, servono manager dinamici, capaci di portare esperienze diverse e di adattarsi rapidamente a nuovi scenari.
Un ex manager americano mi disse una volta:
“Non assumerei mai qualcuno che è rimasto nello stesso ruolo per più di due anni senza alcun cambiamento. Significa che non ha la mentalità di crescita.”
Le aziende che vogliono crescere devono essere composte da persone che desiderano crescere, che accettano e guidano il cambiamento con entusiasmo, non da chi lo teme o lo evita.
È una logica semplice: la crescita aziendale è possibile solo dove esiste una mentalità di crescita personale.
Un altro episodio, divenuto quasi proverbiale, sintetizza perfettamente la differenza di mentalità:
un HR chiese al manager se valesse davvero la pena investire nella formazione di un dipendente, perché “potrebbe andarsene e portare altrove le competenze acquisite”.
Il manager rispose:
“Sarebbe molto peggio se non si formasse e restasse.”
Ecco il punto.
Le aziende che temono di “perdere” chi cresce, finiscono per trattenere chi non cresce più.
Questi tre esempi mostrano una cosa chiara: il vero valore professionale non sta nella permanenza, ma nell’impatto.
Chi sceglie l’Interim Management incarna questa logica , non cerca stabilità, ma risultati.
Ed è proprio da qui che nascono i miti più diffusi, che vale la pena smontare uno per uno.
Per chi ha ambizione e voglia di realizzarsi, il “posto fisso” non è un obiettivo, ma un limite.
Gli interim manager scelgono la libertà di contribuire dove possono davvero portare valore.
Quando sentono di aver completato una missione, preferiscono passare al progetto successivo, dove la loro esperienza può fare la differenza.
Inoltre, parliamo di professionisti altamente qualificati, con competenze consolidate e un network solido: la loro sicurezza non deriva dal contratto, ma dal loro valore di mercato.
Le aziende che cercano questo tipo di profilo li trovano, e spesso li cercano proprio nei momenti più complessi o decisivi.
È vero il contrario.
Gli interim manager sono orientati al risultato, non alla posizione.
Il loro obiettivo non è “restare”, ma realizzare: completare un progetto, portare il cambiamento, costruire processi e poi trasferire le conoscenze al team interno o al successore.
Un buon interim manager lascia struttura, metodo e competenze: elementi che restano anche dopo la sua uscita.
Non è instabilità, è creazione di valore in tempi rapidi.
E, in fondo, chi può essere più affidabile di una persona con grandi competenze, capace di raggiungere obiettivi in modo sostenibile, e che, una volta completata la missione, individua, forma e affianca il proprio successore per garantire la continuità?
Questo è il segno di una leadership matura: non legata al potere, ma alla responsabilità del risultato e della transizione ben riuscita.
Nel breve periodo il costo può sembrare più alto, ma nel medio termine il ritorno sull’investimento (ROI) è spesso superiore.
Un interim esperto porta impatto immediato, senza lunghi tempi di inserimento o formazione, e lavora su obiettivi chiari.
Inoltre, non comporta i vincoli tipici dei contratti a lungo termine (TFR, benefit, costi indiretti).
Nei momenti di crescita accelerata, ristrutturazione, M&A o start-up, avere competenze mirate e leadership matura può fare la differenza tra successo e perdita di valore.
Le aziende che scelgono di “risparmiare” su queste figure spesso finiscono per pagare molto di più in termini di inefficienza o ritardi strategici.
Un interim manager esperto sa che la prima fase è di ascolto e diagnosi.
Il suo valore sta proprio nella capacità di entrare rapidamente nella cultura aziendale, comprendere i processi, identificare i punti di forza e le aree di rischio.
Portare uno sguardo esterno e libero da condizionamenti interni permette di vedere ciò che chi è all’interno da anni non riesce più a notare.
Questo non genera caos, ma chiarezza: l’interim non arriva per stravolgere, ma per mettere ordine e direzione, introducendo metodi e strumenti che rafforzano la gestione nel lungo periodo.
E come riesce a farlo?
Perché ha cambiato spesso contesti e sfide, ha alle spalle numerosi progetti realizzati in diverse fasi di vita aziendale , start-up, crescita, ristrutturazione, post-M&A.
Questa esperienza gli consente di riconoscere fin dall’inizio le dinamiche, i problemi e le leve di miglioramento, costruendo una visione d’insieme immediata.
Un approccio che spesso manca a chi ha lavorato per molti anni nella stessa azienda o in una fase di “maturity”, dove l’abitudine può offuscare la capacità di vedere le opportunità di cambiamento.
È vero che l’interim ha una durata definita, ma l’impatto è tutt’altro che temporaneo.
Spesso, un interim manager accelera trasformazioni che altrimenti richiederebbero anni, avviando un percorso che il team interno può poi consolidare.
Molti executive scelgono questa strada non come “ripiego”, ma come nuovo modello di carriera: più flessibile, più vario e più vicino alle proprie aspirazioni personali.
Un esempio reale dalla mia esperienza: quando sono entrata in una multinazionale in fase di forte crescita, dopo aver lavorato in un fondo di Private Equity americano molto dinamico, ho subito percepito un forte contrasto tra il ritmo del business e l’approccio del team Finance, ancora ancorato a metodi tradizionali.
Fin dai primi giorni ho individuato la principale criticità: mancava chiarezza operativa e una struttura che permettesse al Finance di restare allineato alle decisioni strategiche.
Ho introdotto la funzione di Financial Modelling, progettata per integrare dati operativi e finanziari e supportare il management con analisi tempestive e accurate.
Questo nuovo modello ha permesso non solo di monitorare in modo efficace la performance finanziaria, ma anche di trasformare il processo decisionale dell’azienda: per la prima volta, il management ha potuto prendere decisioni realmente data-driven, basate su scenari simulati e proiezioni dinamiche.
Prima, molte valutazioni venivano fatte dalla casa madre in modo approssimativo e con tempi lunghi; grazie al nuovo modello, l’organizzazione ha acquisito autonomia, velocità e capacità analitica.
Nessuno, fino a quel momento, aveva introdotto un approccio simile.
Questo è uno degli esempi più concreti di come l’intervento di un manager che ha vissuto molte realtà diverse possa generare un impatto permanente: grazie alla sua visione ampia e alla capacità di riconoscere rapidamente ciò che funziona e ciò che manca, riesce a costruire strumenti, cultura e visione che continuano a creare valore ben oltre la durata della missione
Questo è forse il mito più ingiusto e lontano dalla realtà.
Un interim manager non è un professionista “in attesa di qualcosa”, ma una persona che ha fatto una scelta consapevole: mettere la propria esperienza al servizio di progetti mirati, con un impatto concreto e misurabile.
Il costo dei suoi servizi non è “negoziabile a qualsiasi prezzo”, ma coerente con il valore, la responsabilità e la rapidità di esecuzione che porta.
Un interim qualificato non cerca “qualsiasi incarico”, ma progetti in cui le sue competenze siano realmente necessarie e valorizzate, perché è lì che può generare il massimo impatto.
Inoltre, tra una missione e l’altra, dedica tempo all’aggiornamento, allo studio, al confronto con nuovi modelli e mercati. La sua sicurezza non deriva da un contratto a tempo indeterminato, ma dalla solidità delle proprie competenze e dalla capacità di restare sempre allineato all’evoluzione del business.
L’interim sa bene quanto vale e dove può fare la differenza: non cerca opportunità qualunque, ma quelle che richiedono esattamente il suo livello di esperienza e visione.
In questo senso, l’interim management non è per tutti, è per chi ha la competenza, la consapevolezza e la libertà di scegliere dove portare valore.
L’interim management non è una parentesi, ma una forma moderna e strategica di leadership.
Rappresenta la risposta concreta a un mercato che richiede rapidità, competenza e visione, e che non può più permettersi tempi lunghi di adattamento o decisioni basate solo sull’abitudine.
Per le imprese, significa accedere a talenti di alto livello esattamente nel momento in cui servono, per affrontare fasi di crescita, trasformazione o crisi con esperienza e lucidità.
Per i professionisti, significa vivere la propria carriera con libertà e consapevolezza, scegliendo progetti che generano valore reale e permettono di esprimere appieno il proprio potenziale.
In un mondo che cambia rapidamente, la flessibilità non è precarietà, ma una forma di potere intelligente, la capacità di adattarsi, guidare e creare impatto dove serve di più
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